Per 130 anni Aunt Jemima è stato il volto degli sciroppi e dei preparati per pancake più famosi e amati d’America. Poi è arrivata la protesta #blacklivesmatter e la zia è stata decapitata, e il suo viso eliminato dal packaging.
“Le sue origini si basano su uno stereotipo razziale”
ha dichiarato l’anno scorso Kristin Kroepfl, vice presidente e chief marketing officer di Quaker Foods North America. A incalzare, i social e un video diventato virale della cantante Kirby che svuota nel lavandino della sua cucina una scatola di farina per frittelle all’urlo di: “Le vite dei neri contano anche a colazione”.
È vero, il Brand ha alle spalle uno storytelling molto razzista: il nome del marchio deriva da una canzone popolare, Old Aunt Jemima, interpretata da cantanti bianchi truccati da neri, che si rifà allo stereotipo della mamy nera dedita ai figli del padrone bianco. Inoltre, la prima testimonial, Nancy Green, era una ex schiava. Correva l’anno 1890…
Tra pochi mesi i prodotti cambieranno anche nome, perché non ha un gran senso chiamare Aunt Jemima uno sciroppo senza più un volto. E allora, per non perdere tutto il patrimonio d’immagine e comunicazione accumulato in oltre un secolo, si è deciso di cavalcare ancora la tradizione.
Durante tutto lo sforzo che ha portato al nuovo nome la Quaker ha lavorato con consumatori, dipendenti, esperti esterni di cultura e materia e diversi partner di agenzie per raccogliere ampie prospettive e garantire che il nuovo marchio fosse sviluppato pensando all’inclusività.
E chi c’era in principio, prima della zia Jemima?
Pearl Milling Company, azienda nata nel 1888 in Missouri. E quindi dal prossimo giugno si chiamerà così tutta la linea di prodotti da colazione. Per fugare dubbi, ci sarà l’icona di un antico mulino a ricordarlo. Un po’ difficile da riconoscere e graficamente poco felice, ma ci vuole un’immagine per un logo.
Eppure, se Pearl Milling Company non diventò un brand all’epoca, un motivo ci sarà stato, e non credo fosse perché il razzismo vendeva di più. Azienda Mulino Perla sono tre vocaboli scollegati, allora come oggi.
È difficile rimettere mani a un Brand, ed è encomiabile lo sforzo (non solo d’immagine, 1 milione di dollari previsti in beneficienza per associazioni che si occupano di empowerment femminile nelle comunità nere) per seguire nuove tematiche e sensibilità, ma la paura di cedere anche una piccolissima quota di mercato è evidente. Forse si perderanno pochi consumatori, ma se ne acquisiranno di nuovi? Osare dovrebbe essere, oggi più che mai, il primo comandamento di ogni Rebranding.
Avere una lunga storia, anche se con qualche macchia, è comunque sempre una risorsa. Stavolta è andata sprecata, peccato.